Quella della diga del Gleno è la storia di una tragedia annunciata.
Edificata tra il 1919 e il 1923 per volontà dell’imprenditore Galeazzo Viganó come promessa di riscatto economico e sociale per la comunità scalvina, presenta fin dalla sua nascita problematiche sia dal punto di vista progettuale che da quello dei materiali impiegati. La fretta e l’ingordigia sono infatti i motori trainanti di un cantiere mal architettato, che gli stessi operai impiegati nella realizzazione non esitano a definire approssimativo. Un susseguirsi di impasti edilizi mal miscelati, con calce povera e poco cemento, e costanti ordini di fare presto, perché “la diga porterà lavoro ai locali e ricchezze allo Stato”. E lo Stato, l’Italia, di quella ricchezza, di quella energia ha davvero bisogno. Uscita stremata dalla prima guerra mondiale, si ritrova in posizione di svantaggio rispetto alle altre nazioni europee ricche di risorse proprie e coloniali.
Gli operai raccontano che, oltre ad essere di scadente qualità, i materiali impiegati vengono mal utilizzati: barre di metallo di pochi centimetri adagiate sopra i piloni così da simulare un’armatura e colate di cemento gettate sopra il pietrame senza nemmeno averlo battuto precedentemente, come di regola.
E se questo già non bastasse, interviene in corso d’opera una revisione profonda del progetto, improvvisa e mai autorizzata dal Ministero, finalizzata ad ampliare la portata d’acqua del bacino. Questo passaggio – da una diga a gravità ad una ad archi multipli – avviene senza soluzione di continuità e sarà, insieme a quelle elencate fin qui, fra le cause dell’irreparabile. I lavori fatti grossolanamente, senza il rispetto dei tempi corretti di stagionatura del cemento, senza collaudi e senza controlli, producono un enorme muro pieno di perdite e zampilli. Un muro fatto di bugie, destinato a crollare. Il primo dicembre 1923, alle 7.15, la diga si squarcia nel mezzo sotto gli occhi atterriti del custode. Il lago d’acqua si riversa sulla vallata sottostante e la sua massa è tale che basterà lo spostamento d’aria a distruggere il primo paese sul suo cammino, Bueggio. All’arrivo dell’acqua, il sagrestano che era sul campanile viene portato via con esso, insieme alle case, ai boschi e a tutto quanto si trovi lungo il percorso. Nella sua furia, l’acqua spazza via le centrali di Valbona e del Dezzo, per poi precipitare sull’abitato poco distante. L’acqua, carica di detriti e fango riempie le case e alcuni dei pochi superstiti saranno costretti a rifugiarsi sui tetti. Una volta incanalatasi nella via Mala, la forza dell’acqua trova un ostacolo nel canyon. Ed essendosi creato una sorta di tappo, torna indietro investendo per la seconda volta il paese e generando sopra le macerie un vasto lago che defluirà lentamente. Una volta ripreso il suo corso, l’acqua raggiunge Angolo, Darfo, Corna e le zone limitrofe, mietendo altre vittime, prima di arrestare la sua corsa nel lago d’Iseo. Il successivo processo e l’attribuzione delle responsabilità appartengono alla storia. La conta ufficiale delle vittime è di 356, ma nessuno pagherà veramente per quanto accaduto, ammesso che una pena, per quanto esemplare, potesse risanare una ferita così grande. L’impatto sulla vita delle persone investite dal disastro è devastante. Nel solo abitato di Dezzo le vittime furono centottanta. Non ci fu famiglia che non ebbe almeno un lutto. I racconti dei superstiti parlano di un paese in preda ad una disperata follia collettiva. Tra le tante testimonianze raccolte negli anni, una in particolare fotografa la triste condizione dei giorni immediatamente successivi al crollo: Angelo Piantoni detto Manangel, allora diciannovenne, si salva dalla furia dall’acqua ma nel disastro perde nove dei suoi familiari, tra cui una giovanissima sorella. A sessant’anni da quel giorno, la sua voce è ancora rotta dal ricordo: “ Il dolore e la disperazione provati in quei giorni mi fecero ammalare. Dovetti sottopormi a molte cure e per molto tempo. Avevo parecchi incubi e vedevo continuamente acqua e fango, macerie e cadaveri dappertutto. Molte persone rischiarono di perdere la ragione e dovettero essere curate. Ricordo che quando pioveva a lungo, mi tornavano gli incubi perché la pioggia mi ricordava quei giorni tremendi. I ricordi, mio Dio, i ricordi sono terribili. C’era una donna laggiù, vicino al cimitero di Sant’Andrea, era la moglie di un fabbro che lavorava giù in Valbona e lui era rimasto dentro nel disastro. Vestiva tutta di nero, mi ricordo che si rotolava nel fango. Non ragionava più, era disperata così, in mezzo alla strada… non sapeva più cosa si facesse. Poi ricordo che arrivato qui, al ponte del Dezzo, ho incontrato il Carissoni che viveva nella casa dove lavorava mia sorella e in quella casa giù sotto, nella stalla, c’erano dei bambini che erano giù a fare colazione. Avevano portato un paiolo con la pappa perché allora si usava così, si faceva una pappa con il latte e loro stavano mangiando. È così che li hanno trovati, morti, con il cucchiaino ancora in bocca”. Il cambiamento determinato dal disastro è totale, modifica la vita di ognuno dal profondo: “…perché prima eravamo poveri sì, ma poi siamo divenuti miseri”. Il ricordo del disastro è diventato memoria collettiva. Di generazione in generazione i testimoni, compresi coloro che erano a quel tempo bambini e adolescenti, sono stati il tramite prezioso che ha consentito di ricomporre l’identità di un’intera comunità, nel salvare dall’oblio una storia così importante. Quella ferita non sarà mai cancellata e il tempo da allora si divide in un prima e in un dopo la tragedia del Gleno. Ancora oggi fra queste comunità basta pronunciare la parola “il disastro” per evocare il 1 Dicembre 1923.
Al centro di Vilminore, in Piazza Giustizia 1, è sempre aperto uno spazio espositivo dedicato alla Diga del Gleno, con testi e immagini che documentano l’intera vicenda, dalle fasi di costruzione al tragico epilogo.
Presso il Chiosco del Gleno trovate la cassetta con il timbro per la credenziale.